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QUANDO DAL CIELO CADEVANO LE STELLE di Sofia Domino - Capitolo Primo

QUANDO DAL CIELO CADEVANO LE STELLE di Sofia Domino - Capitolo Primo



Roma. Luglio, 1943.

Lia si sentiva sempre più nervosa. La ragazzina era seduta su una vecchia coperta grigia e aveva lo sguardo fermo sulla madre. Giuditta aveva appena acceso una candela, e la luce tremolante della fiamma s’infilava nelle crepe del muro.
Erano trascorsi tre anni da quando Lia e la sua famiglia erano andati a vivere in quella buia cantina, nei pressi del quartiere Trastevere. Il loro non era stato un vero e proprio trasferimento, poichè d’improvviso erano stati costretti a lasciare la loro casa. La colpa non era stata dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ma avevano dovuto nascondersi perchè erano ebrei.
Lia si abbracciò le ginocchia, intravedendo alcune ciocche di capelli ricaderle sulle spalle; aveva i capelli scuri e folti come quelli di suo padre, Daniele, e ne era sempre stata contenta.
- Sei molto fortunata – le dicevano le sue compagne di scuola - hai dei capelli meravigliosi… -
- Anche a me piacciono – osservava Lia, stringendosi al petto la cartella piena di libri.
- Sarai una donna davvero bella! – esclamavano le altre.
- A me non interessa essere una donna bella, io vorrò essere una donna intelligente –.
A quelle parole le sue compagne solitamente non commentavano niente e continuavano a camminare in silenzio.
- Giuditta – sussurrò Daniele, interrompendo involontariamente i pensieri di Lia – perchè sei così nervosa? –
Daniele era seduto dietro all’unico tavolo disponibile; un tavolo di legno, zoppicante, che avevano lasciato al centro della stanza. La cantina era molto piccola e i signori Parisi avevano aiutato Lia e la sua famiglia ad appendere dei bastoni agli angoli delle mura: sui bastoni avevano fatto ricadere delle tende, che avevano la funzione di parete. Dietro a ciascuna tenda, ogni membro della famiglia Urovitz aveva il suo piccolo angolo di mondo, ma poichè gli angoli erano quattro e loro erano in sei, alla fine avevano dovuto accontentarsi.
- Chalom dormirà con Tommaso – aveva decretato Daniele tre anni prima, quando grazie alla famiglia Parisi erano riusciti a trovare quel nascondiglio nella cantina della loro casa - io dormirò con mia moglie e con mia madre. Lia dormirà da sola… -
Lia era stata contenta di quella soluzione. Era molto solare e cordiale, e adorava la sua famiglia, ma sapeva che avrebbe potuto trascorrere mesi, se non anni, in quella cantina, e quindi avrebbe avuto bisogno d’intimità.
- Ci abitueremo presto a vivere qui dentro – aveva sussurrato Lia una notte di qualche anno prima, rivolgendosi a Tommaso, suo fratello maggiore.
- Non sarà la stessa cosa – aveva osservato lui, con aria crucciata - non potremo più uscire, Lia, più. Non potremo sfogarci correndo, oppure se litigheremo con mamma o papà non potremo uscire sbattendo la porta. Là fuori c’è la guerra, e se qualcuno dovesse scoprire che siamo ebrei, allora… -
Tommaso non aveva concluso la frase, ma tutti sapevano che cosa succedeva agli ebrei nelle altre Nazioni.
La ragazzina tornò con la mente al presente. Daniele stava ancora aspettando una risposta da parte di sua moglie, mentre il piccolo Chalom, di cinque anni, stava giocando con sua nonna, Myriam, con un pezzo di stoffa.
- Lo sai qual è la mia più grande paura – disse Giuditta, guardando il marito negli occhi.
- Che qualche famiglia cristiana chieda ai Parisi di venire a vivere qua – rispose Daniele, con un filo di voce.
- Potrebbe succedere! – sostenne Giuditta, posando la candela sul ripiano del tavolo – lo sai benissimo. A causa dello scoppio della guerra molti cittadini di campagna stanno trovando rifugio in città, e Flavio lo ripete sempre… se qualche famiglia dovesse chiedere aiuto a lui o a sua moglie, sarà un problema. Se qualcun’ altro dovesse sapere che noi siamo nascosti qua dentro… –
Lia spostò la sua attenzione su suo padre, ma lui non commentò niente.
La ragazzina sospirò, ritrovandosi a guardare la fiamma della candela che si muoveva sinuosamente, creando delle ombre sul pavimento polveroso. Sapeva che sua madre aveva ragione; sfortunatamente con lo scoppio della guerra troppe persone perdevano le loro case e dovevano fuggire da quelle macerie. Sconvolte, si dirigevano verso le città e chiedevano aiuto ai vari abitanti.
La famiglia Parisi, composta da Flavio e Ludovica - due coniugi cristiani -, però sarebbe stata costretta a non aiutare quelle persone innocenti, le quali altrimenti avrebbero scoperto che la cantina era il nascondiglio di una famiglia ebrea… ma perchè? Lia si alzò dalla coperta, cercando di sgranchirsi le gambe. Le facevano male i muscoli, giacchè stava seduta per ore e ore, così rimase in piedi vicino alla tenda che divideva la sua camera dal resto della stanza. Le sarebbe tanto piaciuto se qualcun’altro fosse andato a vivere in quella cantina. Non augurava quella sorte a nessuno, e sapeva che abitando con altre persone il cibo sarebbe diminuito, ma da un lato sapeva che l’arrivo di una nuova, eventuale famiglia, avrebbe portato un’aria di novità.
- Nessuno vorrebbe trovare rifugio con degli ebrei! – le avrebbe però ricordato sua madre con acidità.
- Lia! –
La ragazzina si riscosse dai suoi pensieri e notò che sua nonna l’aveva appena chiamata. Myriam aveva settant’anni e lunghi capelli grigi le ricadevano sulle spalle. Il suo volto era rugoso ed espressivo e i suoi occhi, dolci, sembravano sempre brillare, come quelli di Lia. Come ogni membro della famiglia Urovitz, Myriam aveva il naso allungato, le labbra fini e le orecchie grandi.
- Tu sei ebrea Lia, vero? – le aveva domandato una bambina durante un giorno scolastico nel 1937.
- Sì, come fai a saperlo? –
- Sei diversa da noi – aveva risposto l’altra, scostandosi dagli occhi una ciocca di capelli biondi. E quella bambina aveva avuto ragione; i lineamenti del volto degli Urovitz, così come quelli di altri ebrei, erano il loro inconfondibile marchio.
Lia andò a sedersi vicina alla nonna.
- Bambina – l’accolse Myriam – mi sembri pensierosa… -
- Stavo ascoltando i discorsi di mamma e papà… -
Myriam soffocò una smorfia;
- I tuoi genitori sono molto nervosi, non ascoltarli sempre. Se ogni giorno ascoltassimo le lamentele degli altri, allora impazziremmo –.
Lia abbozzò un sorriso, poi tornò a guardare davanti a sè; suo padre stava leggendo un giornale mentre sua madre stava sbucciando alcune patate polverose. Tommaso, invece, era nascosto dietro la sua tenda.
La cantina era buia e claustrofobica, e delle volte a Lia sembrava di essere stata separata dal resto del mondo e, forse, era davvero così. Da quando lei e la sua famiglia erano stati obbligati a trovare un nascondiglio, nessuno di loro era più uscito.
Fuori c’era la guerra, ma Lia avrebbe dato qualsiasi cosa per affacciarsi anche per un solo istante dalla botola d’accesso e sentire i raggi del sole sul suo viso. Avrebbe dato qualsiasi cosa per rivedere Roma, per correre nel ghetto ebraico, dove era nata e cresciuta, per perdere lo sguardo nell’azzurro del cielo e per aspettare l’arrivo della notte.
Da quanto tempo non vedeva le stelle brillare? Da quanto tempo non ammirava il tramonto accendere il cielo? Da quanto tempo, semplicemente, non parlava ad alta voce, non rideva, non faceva degli scherzi,non correva… non viveva?
La ragazzina si abbracciò nuovamente le ginocchia. Quella vita in clandestinità andava avanti da troppo tempo. Nel 1940, quando gentilmente la famiglia Parisi si era offerta di nascondere gli Urovitz nella loro cantina, Lia e Tommaso avevano creduto che quella nuova sistemazione sarebbe andata avanti per poco, invece… tre anni. Lia era entrata in quella cantina a dieci anni e adesso ne aveva tredici. A quel tempo Chalom aveva da poco cominciato a camminare, mentre Tommaso aveva cominciato a nascondersi all’attuale età di Lia…
Probabilmente Chalom non avrebbe neanche saputo descrivere il sole.
- Mi piace giocare! – esclamò improvvisamente il bambino, poi scoppiò a ridere lanciando in aria il pezzo di stoffa. Fuori Chalom avrebbe giocato a palla, a battimuro, a tingolo, a mazza e pirolo, a salta montone oppure a campana, ma adesso doveva accontentarsi di quel poco che aveva.
- Non fare rumore, Chalom! – sussurrò sua madre, in un sussurro - se da fuori qualcuno dovesse sentirci, allora potrebbe venire a curiosare –.
- Perchè? – chiese Chalom, confuso.
- Perchè… perchè le persone sono molto curiose – intervenne Lia.
- Vorrebbero giocare con noi? –
La ragazzina si strinse nelle spalle. Non voleva smorzare l’entusiasmo del suo fratellino, ma non voleva neanche mentirgli;
- Forse. Forse qualcuno di loro vorrebbe giocare con noi –.
Myriam sorrise alla nipote e Chalom tornò a giocare.
- Forse qualcuno vorrebbe giocare con noi… - ripetè tra sè e sè Giuditta, abbozzando un sorriso nervoso – che eresia. Se qualcuno scoprisse che siamo nascosti qui, ci farebbe dimenticare i giochi… -
- Soltanto Flavio e Ludovica sanno che siamo nascosti qui – le ricordò il marito, alzando lo sguardo dal giornale che stava leggendo.
- Anche Edda e Sabino lo sanno – precisò Lia.
- Certo che sì – commentò Daniele, con orgoglio; Sabino De Rosa era il suo più grande amico. Il signor De Rosa era cristiano, così come sua moglie, e a sua volta, esattamente come stava facendo la famiglia Parisi, aveva deciso di correre il rischio di nascondere degli ebrei. Sabino aveva trovato per loro un nascondiglio perfetto, nello sgabuzzino sul retro della sua casa, e aveva raccontato alla famiglia Urovitz che al momento stava nascondendo sei famiglie. Di tanto in tanto Edda e Sabino andavano a trovare Daniele e gli altri in cantina, cercando di portar loro delle notizie dal mondo esterno, e solitamente andavano a trovarli di sera, quando il buio era calato e quando i più curiosi non potevano vedere bene i vari movimenti.
- Non dobbiamo dimenticarci che anche Mea sa del nostro nascondiglio – sussurrò Myriam in un secondo momento.
Lia si voltò verso sua nonna, che aveva parlato con un filo di voce per non farsi sentire da Tommaso. Lui era innamorato di Mea e le mancava molto, poichè potevano vedersi poco. La ragazza aveva quindici anni e, dato che non era ebrea, non aveva avuto bisogno di nascondersi. Tommaso e Mea si erano fidanzati prima del 1940 e adesso, dopo ben tre anni, non avevano sciolto il loro legame. Di tanto in tanto Mea, suo fratello Davino e i loro genitori, Ottaviano e Verdiana, andavano a loro volta a far visita agli Urovitz, e Lia adorava quei momenti.
Mea era una ragazza molto dolce, e se Davino era un tipo taciturno, a lei invece piaceva conversare. Spesso si rifugiava con Tommaso dietro la tenda della sua camera, ma delle volte si sedeva a tavola e raccontava numerosi avvenimenti.
La guerra la spaventava, così come le notizie sui vari bombardamenti e la paura che le tessere annonarie non sarebbero più bastate per tutta la popolazione - visti i drastici cambiamenti che erano avvenuti dal 1939, quando la guerra era scoppiata -, ma spesso Mea si ritrovava a parlare d’altro e Lia l’ascoltava con attenzione, specialmente quando conversava di cucina e di dolci.
Solitamente Lia e la sua famiglia mangiavano della zuppa, dei cetrioli, delle patate, delle cime di rapa e del pane. Ma anche il pane stava diminuendo. Le loro tessere annonarie non erano quasi più valide, e anche per i Parisi trovare qualcosa da mettere sotto i denti stava diventando molto difficile. Ecco perchè Lia adorava quando Mea parlava dei vari dolcetti.
Il modo in cui la ragazza descriveva il velo di zucchero che cadeva sulle torte era perfetto.
Lia sussultò quando sentì un rumore sordo provenire dalla strada. Alzò lo sguardo al soffitto, immaginando Roma oltre il muro;
- Che cosa è stato? – domandò Chalom, smettendo di giocare.
- Stt... fai silenzio tesoro – sussurrò Myriam, al suo fianco.
Lia non riuscì a distogliere lo sguardo dal soffitto. Che cos’era stato quel rumore? Possibile che sua madre avesse ragione? Possibile che qualcuno prima o poi si sarebbe accorto del loro nascondiglio?
Possibile che quel giorno fosse arrivato?

*

Era il luglio 1938 quando, tornando felicemente a casa da scuola, Lia era corsa da suo padre e da sua madre.
Le piaceva studiare e forse sarebbe potuta arrivare fino alla quinta.
Quella mattina la bambina aveva appreso nuove nozioni e assieme ai suoi genitori voleva approfondire i vari argomenti che aveva studiato.
- Mamma, papà – aveva esclamato Lia – adoro la scuola! –
Solitamente sua madre le avrebbe sorriso e suo padre le avrebbe chiesto qualcosa in merito, ma quando quel giorno Lia era tornata a casa aveva subito respirato un’aria tesa.
Avvicinandosi a suo padre, seduto su una sedia, lo aveva visto con le mani tra i capelli.
- Papà – aveva esclamato Lia, terrorizzata – ti senti male? –
- No, sto… sto bene –.
Lei gli aveva sorriso, felice, poi gli aveva chiesto quello che tanto le premeva.
- Oggi pomeriggio potrò andare in biblioteca? –
Gli occhi di Daniele si erano riempiti di lacrime e la figlia si era pentita di aver fatto quella domanda.
Eppure non riusciva a capire la reazione di suo padre, capitava spesso che lui l’accompagnasse alla biblioteca…
- Non potrai andarci – aveva sussurrato Daniele.
- Potrò andarci domani? – aveva chiesto allora Lia, speranzosa.
In quello stesso istante anche Giuditta e Tommaso si erano avvicinati, camminando con passi felpati. Lia aveva notato le stesse espressioni tristi sui loro volti, così, colta da un’improvvisa ispirazione, aveva azzardato:
- Hanno chiuso la biblioteca? –
Per un istante nessuno aveva aperto bocca, poi Daniele aveva scosso la testa, si era incupito ancora di più e in un mormorio aveva spiegato alla figlia:
- Sono entrate in vigore le leggi razziali –.
Lia aveva corrugato la fronte.
Daniele aveva guardato la moglie, poi aveva detto:
- Sto parlando del Manifesto della razza1, pubblicato questa mattina sul Giornale d’Italia –.
Lia si era chiesta che cosa avesse esattamente pubblicato il Giornale d’Italia quel 15 luglio.
- E’ stata fissata la posizione del fascismo nei confronti dei problemi della razza – le aveva spiegato il padre, alzando un dito per ogni cosa che aveva elencato - le razze umane esistono. Esistono grandi razze e piccole razze. Il concetto di razza è puramente biologico. Esiste ormai una pura razza italiana. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti e… -
Lia aveva notato gli occhi di suo padre diventare ancora più grandi, poi aveva terminato quella lista.
- Gli ebrei non appartengono a quella razza –.
Improvvisamente la bambina aveva sentito la paura travolgerla.
- Che cosa… che cosa significa? –
La risposta, però, era arrivata col passare del tempo; i cartelli di divieto per gli ebrei erano aumentati e nel giro di pochi giorni non avevano più potuto:
* Continuare a lavorare;
* Servirsi di collaboratori domestici di razza ariana;
* Frequentare luoghi di villeggiatura d’importanza strategica;
* Essere portieri in case abitate da ariani;
* Esercitare il commercio ambulante (solo a Roma gli ambulanti che dovettero riconsegnare le loro licenze furono 800);
* Gestire agenzie di affari, agenzie di libretti ed esercizi di fotografia;
* Essere mediatori, piazzisti e commissionari;
* Eseguire il commercio di libri, vendite di oggetti usati e articoli per bambini;
* Gestire scuole di ballo e noleggiare film;
* Accedere a biblioteche pubbliche…2

La vita per gli ebrei era notevolmente cambiata. Daniele aveva perduto il lavoro come agente di commercio ed era riuscito a trovare un incarico come dattilografo per corrispondenza.
1Il Manifesto della razza fu redatto da cinque cattedratici; Arturo Donaggio, Franco Savorgnan, Edoardo Zavaratti, Nicola Pende e Sabato Visco.
2La lista include molti più divieti. Inoltre furono sostituiti i nomi ebraici di vie, luoghi e moli marittimi e furono rimosse le lapidi che ricordavano cittadini ebrei.

Nell’ottobre del 1938, Tommaso aveva accusato dei problemi alla vista, così per circa una settimana era dovuto andare a piedi da casa sua all’oculista.
Partiva da casa alle 17.00 e rientrava alle 21.00, solo perchè non poteva più utilizzare i mezzi di trasporto.
Lia aveva trovato tutto quello ingiusto, ma non aveva mai smesso di sperare che tutto sarebbe tornato normale.
La ragazzina sapeva che la vita era meravigliosa, e sicuramente avrebbe ritrovato il suo cammino. Nel 1939 però era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale e nel febbraio del 1940 Mussolini aveva ordinato l’espulsione degli ebrei nei successivi dieci anni.
Molti ebrei si erano sentiti costretti a lasciare l’Italia, alcuni avevano scelto di non cambiare le loro abitudini, mentre altri, come gli Urovitz, avevano deciso di nascondersi nel loro Paese.
Solo per un istante Daniele aveva proposto di lasciare l’Italia e di trovare rifugio in Svizzera, ma la salute di Myriam giorno dopo giorno era diventata sempre più cagionevole e per l’anziana donna sarebbe stato estenuante affrontare un viaggio tanto lungo e rischioso.
Alla fine gli Urovitz erano rimasti a Roma e Daniele aveva trovato quel nascondiglio dalla famiglia Parisi. Lia e gli altri avevano dovuto lasciare la loro casa e prendere soltanto lo stretto necessario: dei vestiti, alcuni quaderni, dei libri, dei soldi, dei gioielli, delle coperte, delle candele, la macchina per scrivere, degli specchi e delle scarpe.
Quando era arrivato il giorno di andarsene, Lia non aveva quasi più riconosciuto la sua stanza; era così spoglia che degli estranei, probabilmente, avrebbero creduto che la casa fosse stata abbandonata per sempre.
- Gli altri potranno credere quello che vorranno – aveva detto Daniele, il giorno del loro trasferimento – in pochi dovranno sapere che abbiamo trovato rifugio nella cantina dei Parisi. Sapete che Mussolini vuole eliminare tutti gli ebrei! –
I Parisi rischiavano molto: coloro che erano scoperti ad aiutare gli ebrei venivano severamente puniti.
- Noi vogliamo aiutarvi – aveva però sostenuto Franco, e Lia gli era sempre stata molto grata.
Gli eroi della guerra, infatti, erano anche tutte quelle persone che avevano deciso di rischiare per nascondere delle famiglie di ebrei.




06/04/2014
Rubrica a cura delle scrittrici Sofia Domino e Rebecca Domino