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I porti di Puglia dal XVI al XVIII secolo: Il primo periodo borbonico

I porti di Puglia dal XVI al XVIII secolo: Il primo periodo borbonico



Un primo inizio di ripresa lo si ebbe con il re Carlo III di Borbone, figlio del re Filippo V di Spagna. Per i preliminari del trattato di Vienna del 3 settembre 1735 gli fu riconosciuta la corona di re di Napoli e di Sicilia, da lui cinta già il 15 maggio del 1734. Egli ebbe la fortuna di accogliere come ministro Bernardo Tanucci, dell’Università di Pisa, uomo di larghe vedute e deciso a portare in porto le migliori riforme nel regno, dove le condizioni di vita erano decadute in una situazione dolorosa e avvilente. Nel 1740 era concluso un trattato di pace e di navigazione, molto favorevole, con la Turchia. Altri trattati consimili erano conclusi con l’Olanda e con l’Inghilterra, mentre la marina mercantile e quella contro i pirati d’Africa erano poste in via d’un’efficienza sempre più promettente.
Tutto ciò apparve alle città pugliesi delle coste marittime adriatica e ionica una vera aurora di promesse. Molto poi venne fatto per mettere in attività i porti pugliesi. Infatti a Bari, sulla facciata della torre di Sant’Antonio sono murate due larghe iscrizioni, le quali ricordano le benemerenze di Carlo III di Borbone.
Il nuovo re, che seguiva le direttive sagaci del suo gran ministro Tanucci, aveva ben compreso che le città rivierasche adriatiche di Puglia avevano estremo bisogno di riprendere i commerci marittimi e di riavere i loro porti in efficienza completa: perciò aveva istituito una specie di “consiglio dei tre”, che avrebbe dovuto curare le “opere pubbliche”.
Per Bari furono nominati Marco Gironda, Vidotto dei Casamassimi e Giuseppe Ordigno, che fecero prodigi di restaurazioni edilizie e portuali. Ne discorre il Petroni nella sua Storia di Bari. L’iscrizione immutata a sinistra del fortino di Sant’Antonio abate è del 1757 e descrive quello che la detta commissione fece di bello e di buono entro il perimetro della città, quella a destra, che è del 1762, espone l’attività svolta nel porto. Questa epigrafe è riportata anche dal Petroni. L’iscrizione, come appare evidente, ha un suo gradito andamento di bella romanità, con gli attributi imperiali romanissimi di “pius, felix, augustus, pater patriae” di quasi traianea memoria. Il porto di Bari è felicemente inquadrato, con la sua storica importanza, in un alone di ricordi fortunati, che ci fanno risalire con la mente ai fasti commerciali baresi fiorentissimi dei secoli X-XIII, perchè è detto “frequentato per lunghissimo tempo” dalle navi mercantili di Roma e di Bisanzio: “barensem portum romani grecique imperii classibus frequentatum”. Lo stato di desolazione e di distruzione del porto di Bari è addebitato alla violenza delle tempeste dell’Adriatico – “ariani maris tempestatum vi diruptum” – ma con pietosa menzogna è sottaciuto, che quelle burrasche adriatiche trovarono libero campo di sfogo distruttore, perchè il porto era stato lasciato in uno stato miserando dai secolari governi vicereali spagnoli .
Il maggiore interesse dell’amministrazione borbonica si concentrò sui porti della Terra di Bari, ed in particolare su quelli di Trani, Bisceglie, Barletta e dello stesso capoluogo . Tale preferenza si spiega considerando che si trattava dell’unica provincia del regno che, traendo reali vantaggi dalle proprie terre , era in grado di innescare un autonomo processo di sviluppo economico. Per questo, a partire da allora, tale provincia, più di ogni altra, sarebbe stata al centro della politica portuale dei governi borbonici .
Le iniziative furono anche di ordine militare, nate dall’ambizione del sovrano di subentrare alla declinante potenza marittima di Venezia nel control¬lo dell’Adriatico. Tali interessi si sarebbero concretizzati nel progetto di riattivare il porto di Brindisi . Le altre iniziative riguardarono, oltre alcuni irrealizzati progetti relativi ai porti di Mola e Gallipoli, anche una diffusa attività di manutenzione, che contribuisce a spiegare l’incremento dei traffici marittimi determi¬natosi, in questo periodo, ed in particolare negli anni ottanta, nella provincia barese. L’importanza di tali traffici è sottolineata dal fatto che essi erano diretti non solo verso la capitale, ma anche verso approdi stranieri: veneziani, triestini e dalmati. La situazione rimase invece stazionaria nei porti pugliesi dello Ionio dove, in quegli stessi anni, seguitarono a svolgersi solo attività di cabotaggio .
Il primo porto soggetto ad interventi sembra essere stato quello di Trani uno dei centri più attivi del commercio granario pugliese. Con dispaccio reale del 1741, seguito dopo pochi mesi dalla visita personale del sovrano nella città, fu concesso all’università di individuare le opere occorrenti, e di stabilirne la spesa necessaria e la provenienza dei fondi.
La fase dei progetti iniziata in quell’anno, si sarebbe conclusa nel 1746 con l’approvazione, da parte della Camera della Sommaria, del progetto definitivo redatto dall’ingegnere regio Casimiro Vetromile e dal costruttore del regio arsenale, Giovanni Tisi .
Le opere più rilevanti previste, tutte indicate in una pianta del porto erano rappresentate dalla ricostruzione dei due moli e dal «nettamento» del bacino portuale.
Quasi contemporaneamente ai lavori di Trani furono intrapresi anche quelli relativi al porto di Bisceglie. Gli interventi ebbero inizio nel 1747 e riguardarono la costruzione di un molo, poi detto «molo vecchio», per assicurare alle imbarcazioni la protezione dai venti e dalle mareggiate provenienti da levante. L’opera, però, appena ini¬ziata (non era stato ancora terminato il nucleo del molo), fu notevol¬mente danneggiata da una violenta tempesta, verificatasi nel novem¬bre del 1747, e per questo venne sospesa. I lavori, ripresi nel 1751 su indicazione dell’ingegnere Bompiede, comportarono uno spostamento del molo, il quale assunse la posizione attuale.
La struttura, che nel ‘60 era ancora in fase di costruzione, una volta terminata avrebbe potuto offrire il ricovero a sette o otto bastimenti di media portata.
Più complessi, invece, furono gli interventi attuati nel porto di Barletta che, nella seconda metà del secolo, avrebbe confermato il ruolo di principale centro di esportazione dei prodotti cerealicoli della provincia. A partire dal 1749, grazie anche all’interessamento del marchese Nicolò Fraggianni, gli ingegneri regi Valentini e Sallustio furono incaricati di progettare il suo ampliamento. A tale scopo i tecnici estesero il gia citato «molo isola», cioè la diga artificiale di scogli posta in posizione perpendicolare al «molo vecchio», in base ad una forma arcuata, probabilmente per assicurare una maggiore solidità della struttura sollecitata dall’azione del mare, la cui parte interna, rivolta verso la città, fu attrezzata con banchine e colonnine per l’ormeggio dei bastimenti. Inoltre, sul «molo vecchio», concepito come caricatoio, e munito di banchine sul lato occidentale, fu edificata la fabbrica del lazzaretto. Oltre questi interventi, venne costruita anche la nuova porta della Marina e, contemporaneamente, furono avviati i lavori di ristrutturazione delle mura urbane e delle strade adiacenti al porto.
I fondi per la realizzazione delle varie opere e la manutenzione degli impianti provenivano in massima parte da alcune rendite dell’universit¬à e furono gestiti da una deputazione cittadina detta «delle Mezzane del porto», istituita proprio a tale scopo nel 1750, anno in cui ebbero inizio i lavori . Questi, benchè proseguiti per quasi tutta la metà del secolo, nel 1793 non erano ancora ultimati, sia per la complessità delle opere, sia, soprattutto, per l’elevata spesa necessaria per eseguirli.
Verso la metà degli anni ‘50, il governo diede inizio anche ai lavori per il miglioramento dei porti di Taranto e di Bari.
Nel porto di Taranto, unico scalo interessato al commercio di tutti i principali prodotti dell’economia pugliese, il grano, l’olio e la lana, gli interventi attuati in questo periodo non riguardarono direttamente il bacino portuale, che del resto era, nella sua parte esterna – il Mar Grande – in discrete condizioni, ma il canale artificiale, che a quell’epoca era ricolmo di alghe e detriti di terra. L’intervento, iniziato nel 1755, riguardante il ripristino di tale canale, fu eseguito per ristabilire la comunicazione tra le acque nei due bacini, Mar Grande e Mar Piccolo, ed evitare in tal modo la perdita dell’industria della pesca.
Almeno fino al 1758, i lavori furono diretti dal capitano d’artiglie¬ria Gennaro Ignazio Simeone66 mentre, negli anni successivi, furono proseguiti dal Bompiede il quale, su proposta della Giunta di Commercio, elaborò un nuovo progetto, che avrebbe dovuto finalmen¬te rendere «permanente il canale fatto in quel fosso». II progetto del Bompiede, del quale ci resta solo una dettagliata relazione, fu approva¬to nel 1760. Esso, oltre alla sistemazione del canale proponeva anche un «piano per il maggior coltivo delle cozze» .
Il progetto del porto di Bari, dopo numerose sollecitazioni del lamento cittadino, fu affidato, anch’esso, all’ingegnere Bompiede, che lo eseguì nel 1756. Tale progetto prevedeva alcune opere di modifica e di consolidamento delle strutture esistenti, «molo vecchio» e «molo grande», nella prospettiva di limitare il fenomeno dell’interrimento. La maggior parte di esse è rilevabile nella pianta del Porto di Bari elaborata dallo stesso Bompiede nel 1760. A quell’epoca, però, i lavori non erano stati ancora ultimati.
A Bari, probabilmente più che in qualunque altra città costiera pugliese, le attività marittime, nel corso del secolo, avevano influenzato in modo determinante il processo di trasformazione economica e sociale della comunità. Il ceto mercantile emergente, infatti, era soprattutto costituito da proprietari di imbarcazioni e da esportatori.
Nel processo di sviluppo della città furono pertanto i negozianti maggiori, nonostante il loro numero esiguo, a dare l’avvio alle trasformazioni attraverso le quali nell’economia barese si vennero realizzando i ¬presupposti della conversione da agricola a commerciale e si andò rafforzando quel predominio della città sulla provincia e sulle altre cittadine della regione, che determinò agli inizi dell’800 la sua designazione a capoluogo.
Nello stesso periodo, il governo avviò anche alcune iniziative riguardanti la sistemazione del porto di Brindisi. La prima notizia in proposito, risalente alla fine degli anni ‘50 o primi degli anni ‘60, riguarda il restauro del porto interno, predisposto dal Bompiede. A tale scopo furono indicate due soluzioni: la prima prevedeva la riaper¬tura del canale naturale e la costruzione, lungo di esso, di due moli di «fabbrica», posti parallelamente, per consentire ai bastimenti mercan¬tili di accedere direttamente al porto interno; la seconda, invece, prevedeva un parziale cavamento del canale, per favorite solo il libero «flusso e riflusso» delle acque di questo porto . Comunque, è certo che tali proposte non ebbero alcun seguito.
Ai precedenti interventi, riguardanti i porti principali, si devono aggiungere quelli relativi agli scali minori, sui quali, peraltro, non si hanno precise notizie. Fra essi, comunque, si può citare la proposta, avanzata dal Preside della città di Lecce nel 1762, di ristrutturare l’antico porto di S. Cataldo, distante solo poche miglia dalla città.
La perdita di quel porto aveva contribuito, egli sosteneva, all’impoverimento della provincia «giacchè gli oli, che in gran copia ancora oggi ivi si ripongono, si devono trasportare in luoghi lontani, ed incomodi, per imbarcarsi». La richiesta del sindaco rivela chiara¬mente l’esigenza dei produttori locali di rendere più funzionali gli scali marittimi fisicamente più vicini alle aree agricole. Tuttavia, ad essa non seguì, per tutto il secolo, alcun provvedimento.
Contemporaneamente al miglioramento dei porti, si provvide an¬che a potenziare il sistema dei lazzaretti. Oltre a quello di Barletta, previsto nell’ambito del progetto di sistemazione del porto, vennero costruiti anche quelli di Brindisi, nel porto esterno sull’isola di S.Andrea , e quello di Gallipoli.
Inoltre, fu adottata una serie di provvedimenti atti ad agevolare i traffici commerciali. Nel 1740, nelle città di Manfredonia, Barletta, Bari, Monopoli, Taranto, Gallipoli e, verso la fine del ‘42, probabil¬mente anche a Brindisi, vennero istituiti i Consolati del Mare, con lo scopo di «dare opportunità, ed agevole modo a tutti i trafficanti di ottenersi la giustizia». Sebbene abbiano avuto, come noto, una vita breve, è interessante rilevare che in Puglia, come nelle altre province del regno, vennero localizzati nei centri ritenuti più attivi, o nei quali si volevano potenziare le attività commerciali.
Un’altra altra iniziativa interessante riguardò il progetto, voluto da Carlo III, di un servizio postale quindicinale fra Napoli e Costantinopoli, rispetto al quale Brindisi avrebbe dovuto costruire uno scalo intermedio. L’iniziativa, che doveva accentrare a Napoli la posta degli stati europei per l’Oriente, fu attuata a partire dal 1742, ma dopo solo due anni, ostacolata da intrighi diplomatici, fu sospesa.
Altri provvedimenti furono presi per difendere i traffici commerciali lungo le coste; rientra fra essi, ad esempio, il permesso concesso nel 1742 al Preside di Lecce di armare i porti e le marine di Terra d’Otranto, nonchè le imbarcazioni, contro la persistente minaccia della pirateria barbaresca.
Tornando ai porti, è comunque da rilevare che nessuno dei progetti citati venne completato in questo primo periodo: i lavori, infatti, sarebbero proseguiti anche durante gli anni ‘60, e in alcuni casi sino alla fine del secolo.


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